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Michel Barnier in barba a tutti: ecco perché Macron l’ha voluto primo ministro

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Il nuovo primo ministro francese Michel Barnier

Emmanuel Macron, più illusionista che statista, estrae dal cilindro della crisi di governo post-elettorale da lui stesso voluta un coniglio a sorpresa: un primo ministro neo-gollista, Michel Barnier. Le etichette politiche, tuttavia, non ingannino. Per quanto il destino istituzionale della Francia non sia ancora segnato, l’inquilino dell’Eliseo ha fatto quanto poteva per mutare lo spirito delle istituzioni, volute nel 1958 dal generale de Gaulle.

Qual è la ragione di ciò? Secondo noi, il fatto che l’ambizione personale di Macron – certo fondamentale per l’essere umano e così, dunque, per le stesse personalità politiche – non possa esaurire l’ispirazione, il disegno, il destino nazionali. L’ambizione individuale smuove, ma solo il moto collettivo sostiene un Paese, lo trae in salvo e lo spinge avanti. Prima però di tornare su considerazioni di sistema, stiamo alla cronaca politica d’Oltralpe.

Il governo è affare del presidente e…

Ricapitoliamo. Dopo il ceffone preso alle Europee, Macron decide di indire Politiche anticipate. Un azzardo più calcolato di quanto non sembrasse: il doppio turno, col ballottaggio anche a tre, dà a chi fa della spregiudicatezza l’abito di tutti i giorni più di una carta di riserva. Detto, fatto. Al primo turno, i francesi rifilano un nuovo manrovescio al presidente della Repubblica, relegando la formazione che si reclama a lui sul gradino più basso del podio e premiando con la medaglia d’oro (e di Pirro) il Rassemblement national di Le Pen e Bardella. 

Al secondo turno, appello sedicente repubblicano (c’è ancora una destra bonapartista, in Francia?) contro il fascismo (c’è addirittura mai stato, in Francia?) e desistenze tra il Nouveau Front populaire di sinistra ed i turbo-liberali. Risultato: 1°, nessuna maggioranza a palais Bourbon; 2°, vittoria assoluta (per numero di seggi) al Nouveau Front, ottenuta grazie ai voti di Macron; 3° ed è l’ultima notizia, nomina del primo ministro tra le fila dei Républicains (ultimo nome dei neo-gollisti), che hanno preso 1/6 dei voti del Rassemblement e 1/4 del Front di sinistra e dei Liberali presidenziali. A beneficio dei lettori, ricordiamo che in Francia il governo (non solo la sua nomina) è affare del capo dello Stato: l’Assemblea nazionale può obbligarlo a dimettersi censurandolo, ma non è titolare di alcun rapporto fiduciario con esso.

Democrazia à la carte della tolleranza giacobina

Al netto di questo doveroso richiamo costituzionale, resta la vistosa, quasi scandalosa determinazione di Macron di infischiarsene della sostanza della volontà popolare, in nome dell’idea per cui la Repubblica Francese sarebbe monopolio del giacobinismo (aggiornato due secoli e mezzo dopo) e di quanto quest’ultimo sia disposto a tollerare. Tolleranza, quella giacobina, notoriamente piuttosto bassa.

Infatti, dopo avere usato Mélenchon per lasciare dietro la lavagna Le Pen, Macron ha nominato capoclasse Barnier. Gli strepiti del tribuno della France insoumise contro l’ingresso a Matignon dell’ex negoziatore europeo della Brexit, per quanto grandi, non lo saranno mai quanto la sua faccia tosta. Jean-Luc Mélenchon sapeva benissimo che il governo non sarebbe stato dato non solo a lui personalmente, ma nemmeno al cartello egemonizzato dai suoi asseriti indomiti. Ha accettato di fungere da “utile idiota” della solita manovra della “torre d’avorio” contro la “plebaglia” di destra e di sinistra, prendendo in giro i suoi sprovvedutissimi elettori.

Barnier, tra politica e burocrazia

Due parole sulla biografia di Michel Barnier. Classe 1951, espressione della formazione post-universitaria dei master (cioè di matrice anglosassone, imperante dopo la Seconda guerra mondiale), si è ingaggiato subito sotto le insegne neo-golliste. È stato più volte deputato e ministro con Balladur e Juppé sotto la presidenza di Jacques Chirac, che nel 1999 lo ha indicato per la Commissione europea (presieduta da Romano Prodi). Dopo una parentesi al ministero degli Esteri nel 2004-2005, sempre per conto di Chirac e un’altra al ministero dell’Agricoltura (2007-2009) con Nicolas Sarkozy all’Eliseo, torna a Bruxelles nella seconda Commissione Barroso. Infine, nel 2016, Jean-Claude Juncker lo designa come capo negoziatore dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea.

Adesso, in pratica, Barnier dovrà provare a non farsi censurare dall’Assemblea nazionale. Per riuscirci, dovrà condurre politiche di destra, coi voti dei liberali e della sinistra moderata (quel che resta dei socialisti francesi) e con l’appoggio determinante – e soprattutto politicamente condizionante – di Marine Le Pen e del suo Rassemblement. Male che vada (ipotesi tutt’altro che improbabile) dovrà navigare per un anno, sino alla prossima estate, quando quel sincero democratico di Macron potrà, volendo, chiamare i francesi ad un nuovo giro di valzer elettorale.

Sovranità del popolo, o no?

Come anticipato, chiudiamo su considerazioni di sistema. Perché siamo convinti che Macron provi a snaturare lo spirito della Quinta Repubblica? Perché questo spirito non è mai consistito, nemmeno con de Gaulle in persona all’Eliseo (1959-1969), soltanto in uno che comanda e gli altri che si adeguano. La Costituzione francese, proposta da de Gaulle e adottata dai francesi il 28 settembre 1958, comincia, dopo il richiamo alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, il Preambolo della Costituzione della Quarta Repubblica del 1946 e l’articolo 1 sull’amatissima laicità, con il Titolo I, “Della Sovranità”. L’articolo 2 recita, al suo ultimo comma: «Il principio della Repubblica è: governo del popolo, attraverso il popolo e per il popolo».

Senza volersi spingere a dire che stia governando contro il popolo, Emmanuel Macron sembra approcciare con troppa disinvoltura almeno il 2° comma dell’articolo 3 della Costituzione della République, laddove, sempre in riferimento alla sovranità, si dice che «nessuna parte del popolo, né alcun singolo può attribuirsene l’esercizio». I francesi, a stragrande maggioranza (sia pure a partire da punti di vista reciprocamente non sovrapponibili), hanno rigettato il modo in cui il loro Paese è stato governato negli ultimi vent’anni e specialmente quello con cui esso viene condotto da Macron negli ultimi sette. Il presidente, però, è convinto di dover educare il suo popolo, sicché quest’ultimo gli consegna i Républicains al 6,5% e lui ne insedia un esponente a Matignon. Per contro, ne tiene fuori il Rassemblement che ha preso il 33%, imputando Vichy e l’Algeria francese a chi (come Bardella) è nato con Chirac presidente, tra 50 e 30 anni dopo quei fatti.

Dal gollismo ai comitati centrali comunisti 

Georges Pompidou, più a lungo di chiunque altro primo ministro della Cinquième con de Gaulle presidente e quindi suo immediato successore all’Eliseo, rifiutava lezioni di gollismo da chicchessia. Non proveremo noi ad impartirne ad Emmanuel Macron. Non vorremmo, però, che anziché all’eroe della Resistenza e padre della Quinta Repubblica, l’attuale presidente s’ispirasse ai Comitati centrali dei Partiti comunisti del secolo scorso: quelli convinti che, quando i popoli non consentivano, bisognasse cambiare i popoli anziché le proprie deliberazioni.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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