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Medio Oriente alle soglie dello scontro aperto Israele-Iran: che fare?

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Medio Oriente: escalation o no? Un tema di per sé drammatico come questo viene trattato dall’informazione e dalla comunicazione all’insegna di slogan buoni per le tematiche più leggere e talvolta insulse. Già 6 mesi fa stigmatizzavamo queste riduzioni giornalistiche che, mentre sembrano mettere questioni complesse alla portata dei più, aumentano la confusione intorno a temi assai intricati. Allora, si parlava di una tregua nella guerra di Israele ad Hamas a Gaza, operazione lanciata dopo l’aggressione e i pogrom del 7 ottobre dell’anno scorso e tuttora in corso.

Oggi, in Medio Oriente il tema è il seguente: a seguito dei ripetuti omicidi mirati israeliani all’estero (Libano e Iran), che fanno da corollario alla guerra a Gaza, il conflitto si allargherà? L’Iran, che, dopo il generale dei pasdaran Zahedi lo scorso aprile, ha visto uccidere il 31 luglio, ancora sul proprio territorio, il leader politico di Hamas Haniyeh, attaccherà sul serio e direttamente Israele? Il Libano sarà nuovamente invaso dallo Stato ebraico, onde combattere su vasta scala Hezbollah, l’organizzazione politica e militare d’ispirazione iraniana, che tiene sotto tiro dal sud del Paese dei cedri il nord d’Israele? Gli Huthi dello Yemen sono anch’essi una reale minaccia per Tel Aviv, come parrebbe suggerire lo strike del 19 luglio, quando le schegge di un missile e di droni abbattuti dalla contraerea americana ed ebraica hanno comunque fatto un morto israeliano?

Pretese ed equivoci

Queste domande non hanno una risposta sicura. Per certo, invece, il termine escalation è generico e oltremodo ambiguo. Può riuscire comodo pensare, nel campo occidentale, che il nostro mondo abbia sempre ragione. Peccato che questo, oltre ad essere impossibile filosoficamente, non ci faccia fare alcun passo avanti ed avviti sempre più le crisi e la loro degenerazione bellica.

Cominciamo sgomberando il campo da alcuni macroscopici equivoci. In primo luogo, per quanto riguarda la questione palestinese, “Due popoli e due Stati” è un mantra senza senso, né fondamento. In campo c’è solo uno Stato, quello d’Israele, che non consentirà mai ad una realtà altra di vedere la luce e dividere il poco spazio disponibile con lui. A meno che, naturalmente, non si voglia chiamare “Stato” un’enclave arabo-palestinese senza aria, acqua, terra, risorse ed armi sue e priva di continuità territoriale.

In secondo luogo, gli Stati Uniti non sono un mediatore effettivo nel conflitto israelo-palestinese, perché difettano dell’equidistanza e dell’equivicinanza rispetto alle parti in causa: gli Stati Uniti sono sempre e comunque dalla parte di Israele. Non c’è, dunque, ombra di autentica mediazione in questa vicenda. In terzo luogo, i Paesi arabi sono per lo più avversari e non amici della causa palestinese. Anzi, la faglia storica tra sunniti e sciiti, nata su basi religiose e approfonditasi per ragioni politiche e d’influenza, è già stata impugnata da Israele e Usa, con gli Accordi di Abramo di 4 anni fa e la riuscita saldatura sunnita contro l’Iran sciita.

Il dilemma di Teheran 

Perché la parola “escalation” rischia di essere fuorviante in Medio Oriente? Perché, in Occidente, il rischio corrispondente è messo in carico solo ai nemici di Israele. Federico Rampini, sul Corriere della Sera la settimana scorsa, lo ha scritto chiaramente: solo se l’Iran inscenerà una replica sostanzialmente inoffensiva allo smacco subito con l’omicidio di Haniyeh nella sua capitale, si potrà evitare un’azione israeliana e americana su vasta scala. Gli iraniani, in sostanza, attraverso l’ispirazione e il finanziamento del terrorismo, possono continuare a fornire pretesti a palestinesi e libanesi (come precedentemente ad iracheni e siriani) per farsi spianare. Diversamente, verrebbero spianati a loro volta.

Convincerli di questa convenienza si direbbe un’impresa non improba. Infatti, le incursioni israeliane direttamente a Teheran impongono di riconsiderare anche pubblicamente la credibilità della pericolosità dell’antica Persia. Certo: nonostante il malcontento montante contro la ierocrazia khomeinista e le sue brutalità interne e, quindi, la fragilità del regime, l’Iran rimane un Paese immenso, capace in prospettiva di reggere fisicamente colpi che Israele non potrebbe sopportare. La realtà, però, è che Israele e Stati Uniti possono portare subito la guerra sul territorio iraniano, mentre non è vero l’inverso. Sicché, l’Iran è contemporaneamente e paradossalmente chi ha più da perdere dall’escalation e il principale indiziato per il suo paventato innesco.

Fare la fatica di capire gli altri… 

Sin qui, abbiamo messo in evidenza soprattutto quello che non è come sembra: l’esistenza di una umma islamica pronta a combattere compattamente contro il mondo occidentale, la credibilità dell’Iran anche solo come potenza regionale, l’effettiva capacità di mediazione degli Usa in Medio Oriente indipendentemente dal tipo di amministrazione in carica a Washington. Siamo ancora in debito di un altro spunto di riflessione che vorremmo suggerire.

È questo: la tendenza alla radicalizzazione delle posizioni porta, anche nelle relazioni internazionali, a negare qualsiasi cittadinanza agli interessi altrui. Questo, però, coincide con il deterioramento degli stessi rapporti internazionali e, quindi, il proliferare delle guerre. Esemplifichiamo. Un conto sarebbe dire: i palestinesi hanno le loro gravi mancanze e aspettarsi aiuto dal di fuori senza assicurarsi quel che serve all’interno non porta ad altro che a situazioni come quelle della Striscia e della Cisgiordania segmentata dagli insediamenti.

Altro conto è dire, invece: la democrazia di qua, il crimine di là; uno Stato di qua, il terrorismo di là; chi, avendo la bomba, teme che gli altri se la facciano, ha diritto a fare azioni di guerra presso questi ultimi per impedirgli di farsela; il diritto di difesa e di rappresaglia è illimitato e comunque completamente autoriferito; e così via. Questo modo di ragionare e di porsi mena dritto dove ci troviamo, vale a dire in una condizione di instabilità e pericolo permanenti e nella quale la celebre massima di von Clausewitz (“La guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi”) finisce per essere quasi sistematicamente invertita.

Realismo e responsabilità 

Al punto in cui siamo, le Presidenziali statunitensi di fine anno potrebbero rappresentare, soprattutto nel caso di un cambio di amministrazione, l’unica possibilità non tanto di novità, quanto di chiarificazione. L’opzione di Donald Trump per una politica di ostilità dichiarata verso l’Iran, specie in tema di sanzioni contro il programma nucleare, forse obbligherebbe Teheran a decidersi nel senso di una ragionevole convivenza con un avversario non domabile come Israele. D’altra parte, il realismo politico insito nell’affermazione dell’interesse americano per un Medio Oriente, se non pacificato, almeno in stato di guerra fredda, risparmierebbe agli Usa e al mondo lo spettacolo deprimente dei “penultimatum” a Israele e dei surreali consigli all’Iran di non innescare l’escalation contro se stesso.

Quanto alla pace, si sa che è un’aspirazione messianica, ovvero (più laicamente) utopica. Certamente, quasi 40 anni dopo la fine del mondo bipolare, abbiamo imparato che condividere le responsabilità è necessario, perché il dominio assoluto non esiste, mentre il caos resta una possibilità concreta.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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