Sciopero dei magistrati contro la riforma costituzionale della separazione delle loro carriere: non solo lo hanno fatto (e non era neanche la prima volta), ma se ne vantano pure. Poco male, ormai si sa come va in Italia. Siccome finisce per spettare ai medesimi magistrati stabilire quali siano i limiti di esercizio dei diritti (e talvolta di pretesi tali), era difficile illudersi che optassero per il self-restraint, cioè per la moderazione o l’autocontrollo.
Piuttosto, è il contenuto della riforma proposta dal Governo Meloni e approvata in prima lettura alla Camera lo scorso 16 gennaio a lasciarci perplessi. Vediamo subito perché. Non prima, però, di esserci sottoposti allo stucchevole rito della rivendicazione delle adesioni all’iniziativa di protesta, che in un caso come questo non fa altro che aggiungere pena a pena. Si dice che in media abbia rifiutato la bilancia della giustizia ai cittadini quasi l’80% delle toghe, con significative differenze tra l’assenso plebiscitario dei distretti di Corte d’appello di Genova e Milano (95 e 90%) e quello più contenuto (benché comunque maggioritario) di Roma col 65% di adesioni.
Un cattivo affare
Lo sciopero dei magistrati contro il legislatore ci sembra un cattivo affare, anche soltanto perché si configura come una serrata nei confronti dei cittadini. Per serrata s’intende, nel diritto del lavoro, l’astensione degli imprenditori, cioè la chiusura da parte loro delle aziende. Non è un diritto, secondo la giurisprudenza costituzionale, ma una libertà (non è punibile in senso stretto, vale a dire non è sanzionabile penalmente) e resta nondimeno un illecito civile. Se è un illecito civile la serrata degli imprenditori, quella dei magistrati, che sono gli organi di un potere dello Stato, cos’è?
Tanto più strana sembra l’opzione per un approccio conflittuale da parte dei magistrati, che tratteggiano sovente e volentieri la propria funzione quasi come fosse sacerdotale. Non si capisce come faccia la Magistratura a non rendersi conto che il suo ruolo istituzionale le impedisce, ragionevolmente, di prendere pubblica posizione contro le norme, specie quelle che la riguardano direttamente. Le norme, infatti, provengono dall’autorità politica, che in democrazia è contendibile. Sicché schierarsi contro l’autorità politica, che ha sempre giocoforza un determinato colore politico, pregiudica l’imparzialità dell’esercizio della funzione giurisdizionale e anzitutto l’apparenza o visibilità di questa necessaria terzietà.
La separazione alla Nordio
Veniamo a Governo e maggioranza. La riforma costituzionale della separazione delle carriere dei magistrati consiste esclusivamente e desolatamente in quello che dice il titolo sotto cui viene comunicata. Niente di più. La comunicazione al riguardo del centrodestra o destracentro, per lo più in risposta alle critiche delle opposizioni giudiziarie e politiche, si riassume così: il pubblico ministero resta indipendente, non c’è scritto da nessuna parte nella riforma che finirà sotto il potere politico e noi non lo vogliamo affatto. Peccato che mettere il pubblico ministero alle dipendenze del Guardasigilli, cioè rendere formalmente politica la scelta – che è già sostanzialmente politica – di quali reati perseguire con maggiore sollecitudine e determinazione, sia una delle leve possibili da azionare per cercare di trovare un più razionale ed efficiente equilibrio dei poteri dello Stato.
Maggioranza e Governo si compiacciono di mettere retoricamente in fuorigioco la protesta corporativa della Magistratura. Siccome, però, l’attrazione del pubblico ministero nell’ambito del potere Esecutivo nella riforma non c’è per davvero, chi ci governa ci ricorda quel marito che per fare dispetto alla moglie attenta alla propria virilità. D’altra parte e nonostante le scontate accuse delle opposizioni, non si può dubitare della sincerità del Guardasigilli Carlo Nordio e del Governo. Infatti, hanno messo la firma sotto una riforma che si limiterebbe, ove approvata, a sdoppiare le carriere e i Consigli superiori della magistratura (composti attraverso il sorteggio) e ad istituire un’Alta corte disciplinare in cui i togati sarebbero ancora in maggioranza.
Il vantaggio di una vera riforma
In conclusione, una riflessione su un tema che, per come viene trattato nel dibattito politico e mediatico, ci appare privo di senso. È l’argomento dell’utilità o meno per i cittadini dell’attuale riforma costituzionale della giustizia. Quanti le si oppongono, magistrati in primis, impugnano risolutamente il vessillo del “benaltrismo”. Ci vorrebbe ben altro, dicono, per migliorare il servizio-giustizia che non la separazione delle carriere di giudicanti e requirenti. Risorse materiali e nuovo personale (solo amministrativo e non giudiziario, per carità, secondo loro). La parte politica che sostiene questa riforma glissa solitamente sull’argomento, o punta sulla suggestione dell’auspicio che anche i magistrati che sbagliano (una volta approvato il nuovo assetto) paghino.
Ci paiono discorsi senza senso, perché è proprio l’insufficienza della riforma (che ai magistrati sembra invece atroce insulto) a non aiutare la soluzione anche dei problemi burocratico-amministrativi che affliggono il servizio-giustizia. Mettiamola così: una migliore riforma, una vera riforma arrecherebbe al servizio-giustizia il beneficio di scrostarlo dall’ipocrisia che lo riveste, rendendone trasparente l’inevitabile tasso di politicità che lo caratterizza.
L’esercizio dell’azione penale, checché ne scriva l’articolo 112 della Costituzione del 1948, è sempre – anche tuttora, a Carta invariata – discrezionale. L’attrazione del pubblico ministero nel potere Esecutivo consentirebbe al voto popolare di riconoscere e sanzionare, col favore o il disfavore elettorale, la politica della giustizia condotta nel Paese. L’amministrazione della giustizia è una delle forme più rilevanti di azione politica e fingere di non saperlo non fa sì che non lo sia. Nel caso italiano, è una politica che si caratterizza come potere diffuso e irresponsabile e la riforma Nordio non incide per accentrarlo e responsabilizzarlo.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.