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Mattarella: le parole non dette sulla crisi della Magistratura

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Sergio Mattarella e la crisi della Magistratura deflagrata con le intercettazioni del caso Palamara: tanto tuonò che non piovve, diciamo. Ad un anno esatto dalla prima ondata di rivelazioni, l’impressione suscitata dalle trame intessute dall’ex presidente dell’Anm ed ex componente del Csm non accenna a placarsi. Anzi: il coinvolgimento, nelle sue conversazioni captate, di Matteo Salvini come un bersaglio da attaccare da parte dei magistrati per convenienza politica, ha suscitato vaste e preoccupate eco.

E il capo dello Stato, che del Consiglio superiore della Magistratura è presidente di diritto, si è visto costretto a prendere nuovamente una pubblica posizione. Lo ha fatto con una nota dell’ufficio stampa del Quirinale di ieri l’altro. Il presidente della Repubblica ha scelto una modalità sfumata di intervento, com’è nel suo stile. Prendiamo ovviamente il buono che c’è in questo modo di fare molto misurato. Forse, però, l’annosità e la gravità dei problemi che anche le vicende di Luca Palamara ripropongono meriterebbero una trattazione più severa, al di là della drammatizzazione. Ma partiamo da cos’ha dettato l’altra sera Mattarella alle agenzie.

Mani legate e la bocca cucita 

Volendo sintetizzare, le notizie vere e proprie contenute nella nota sono poche. La prima è che il capo dello Stato ribadisce sconcerto e disapprovazione per quanto emerge dalle inchieste. La seconda è che il mandato dell’attuale consiliatura del Csm (come di qualunque altra) non può essere interrotto discrezionalmente dal Presidente, ma solo in caso d’impossibilità di funzionamento. La terza è che Mattarella si mantiene estraneo al dibattito politico e giornalistico sui fatti oggetto di valutazione penale e disciplinare.

Una presa di posizione del presidente della Repubblica era ormai inevitabile. Anche se, come detto e ribadito dal comunicato di ieri, si trattava di un déjà vu. Da una carica istituzionale la cui principale prerogativa politica riconosciuta è la moral suasion ci si attende anzitutto questo, di fronte a certi fatti: la condivisione di una generale disapprovazione istintiva. Che di questo ci si possa anche accontentare è un altro discorso. Mattarella però, piaccia o meno, ha precisato soprattutto quello che non può fare e perché non può farlo.

Non può sciogliere l’attuale Csm, a meno che non gli venga a mancare il numero legale. Non può suggerire, oltre all’opportunità di vararle, il contenuto di nuove regole per l’elezione e il funzionamento dello stesso Csm. È inutile che solleciti formalmente le Camere e il Governo in questo senso, perché si mostrano da tempo consapevoli della corrispondente necessità. Non può, né intende esprimere valutazioni sul contenuto di certe affermazioni contenute nelle intercettazioni a carico di alcuni magistrati.

Lo spirito e la lettera della legge

Nella nota del Quirinale di ieri c’è però anche una precisazione fondamentale, che merita di essere sottolineata e apprezzata. Dovrebbe essere scontata ma non la è, soprattutto nel nostro Paese.

Dicendo che una riforma del Csm a livello legislativo e auto-regolamentare s’impone da tempo, il capo dello Stato aggiunge che essa non può essere disgiunta dal fondamentale e decisivo piano del cambiamento dei comportamenti individuali. È un punto nodale, nella “patria del diritto”. Illudersi che fatta la legge non si trovi immediatamente anche l’inganno non scusa nessuno. Sono il convincimento, la determinazione, il senso dello Stato e delle istituzioni, la coscienza civica e sociale a risultare decisivi. Tanto più questo vale per i pubblici funzionari e per quella loro speciale categoria, costituita dai magistrati.

Costituzione da modificare?

Proviamo adesso, senza pretese ma anche senza timori reverenziali che non sarebbero autenticamente repubblicani,  a vedere cosa manca, forse, nel comunicato presidenziale sulla giustizia. Fondamentalmente, secondo noi, una coraggiosa presa d’atto che è anche l’assetto costituzionale della Giurisdizione a rivelarsi inadeguato.

Del resto, è lo stesso presidente della Repubblica a denunciarlo implicitamente. Quando parla di “inammissibile commistione tra politici e magistrati”, non critica forse l’inevitabile commistione stessa, sancita come tale dalla Costituzione a proposito del Csm all’art. 104, commi 3° e 4°? Che senso ha, infatti, far eleggere dalle Camere un terzo dei componenti il Consiglio, se non consentirne precisamente la lottizzazione partitica? Logica spartitoria che fatalmente i consiglieri sia togati sia “laici” sono puntualmente portati a replicare nell’esercizio delle loro funzioni.

Per non parlare, poi, dell’unico ruolo permeabile nella Magistratura per giudici e pubblici ministeri. Ovvero dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, in realtà garanzia suprema dell’insindacabilità e discrezionalità piene del pubblico ministero. Ma, anche solo per restare al Csm e alla presidenza spettante al capo dello Stato, come si fa a non dire che il fatto che quest’ultimo non possa scegliersi il vice svuota di senso la garanzia della presidenza stessa? Il presidente della Repubblica, insomma, è presidente del Csm a condizione che non possa farlo per davvero.

Magistrati e politica

A nostro avviso, però, il comunicato di Sergio Mattarella del 29 maggio manca anche di qualcos’altro. E precisamente di un’autocritica della politica sul versante dei costumi. Tema, questo, classificato come cruciale dallo stesso presidente della Repubblica. Ebbene: non ci si sarebbe potuta attendere dal capo dello Stato una stigmatizzazione severa del malcostume della collocazione fuori ruolo dei magistrati presso le pubbliche amministrazioni soprattutto centrali (ministeri, gabinetti e uffici legislativi degli organi costituzionali, e così via)?

È questa prassi che realizza una sorta di “uso giudiziario della politica”, speculare al più noto e deprecato “uso politico della giustizia”. I magistrati hanno il loro daffare, considerato l’arretrato e il malfunzionamento di tanti aspetti del servizio-giustizia. Mettergli in mano la burocrazia può servire ad altro, non certo a far loro assolvere i compiti per cui sono stati reclutati.

Ecco, in conclusione, cosa si poteva sperare di sentir dire dal presidente della Repubblica. Che la magistratura non può andar bene se non va bene la politica, specie ove quest’ultima rinunci al ruolo di guida che necessariamente le spetta. Ripetere come un mantra il principio dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario non basta più. Anche perché è ormai sotto gli occhi di tutti come esso sia stato ampiamente equivocato, nella sua autentica portata.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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