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Minniti segretario: sarà lui l’antiSalvini del Partito democratico?

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L'ex ministro dell'Interno Marco Minniti

Minniti: un “comunista di destra” come segretario del Pd? La suggestione è innegabile. Anche se la candidatura dell’ex titolare del Viminale rimane tuttora incerta. Nondimeno, che Minniti sia in campo lo dimostra il suo attivismo sia sul territorio sia mediatico. Parlando di trasferte, questa settimana è stato a Imola lunedì. Giovedì sarà a San Severo di Foggia e Venerdì a Trento. Sabato si dividerà fra Venezia e Firenze, dove, nel pomeriggio, la sua sarà forse la partecipazione più attesa alla 9ª edizione della Leopolda di Matteo Renzi. Tanto basta a rafforzare l’opinione di alcuni secondo cui, ove si candidasse, Minniti lo farebbe sostanzialmente per conto di Renzi.

Altri sostengono invece che per farlo in modo “autonomo” l’ex ministro dell’Interno aspetterà il 6 novembre, in occasione della presentazione del suo libro Sicurezza è Libertà a Roma. E in questo caso avrebbe a disposizione anche una serie di elementi di valutazione in più sulla situazione politica. A partire dai giudizi della Ue e delle agenzie di rating sulla manovra del governo.
Minniti intanto prende tempo. E “riflette”, nonostante numerosi sindaci Pd di grandi città (ma non Sala da Milano) gli chiedano di accettare. E allora conosciamo un po’ meglio questa figura, alla ribalta negli ultimi due anni ma sulla breccia politica da tempo.

Dal Pci calabrese a D’Alema 

Marco Minniti (nome completo Domenico Luca Marco) è nato a Reggio Calabria nel 1956. Di famiglia a tradizione militare, si sottrae al destino preparato da altri per lui in aeronautica e sceglie la politica. Si iscrive alla Fgci e si laurea in filosofia. Poi, dalla gioventù organizzata del partito, sale i gradini del Pci locale fino a quello di segretario di federazione a Reggio Calabria. Nel 1992 è segretario regionale del Pds calabrese. Passa quindi a Roma, diventando nel 1996 coordinatore della segreteria nazionale. Alle politiche di quell’anno manca l’elezione alla Camera nell’uninominale. Ma prosegue la scalata nei Ds, diventandone segretario organizzativo.

Il sodalizio con Massimo D’Alema gli vale l’ingresso al governo direttamente nella stanza dei bottoni. È infatti sottosegretario a palazzo Chigi nei due governi del leader diessino, tra il 1998 e il 2000. Dopo un breve periodo come sottosegretario alla Difesa (governo Amato), comincia dall’opposizione a occuparsi di sicurezza per conto prima dei Ds, poi del Pd. Nel frattempo, mantiene il controllo del partito nella sua regione. Viceministro dell’Interno nel secondo governo di Romano Prodi (2006-2008), torna a palazzo Chigi come sottosegretario con Enrico Letta (2013) e mantiene la cruciale delega per i servizi segreti anche con Renzi (2014-2016). Quando il governo di Paolo Gentiloni è chiamato a gestire le macerie del referendum del 4 dicembre perso dal Fiorentino, Minniti diventa finalmente ministro dell’Interno.

Minniti e il nodo sicurezza

La permanenza al Viminale (un anno e mezzo) è stata dominata dalla gestione dell’immigrazione. Minniti ha agito su due fronti. Da una parte, stabilendo relazioni e accordi con il governo libico e le tribù locali, onde impedire il più possibile le partenze sulla rotta mediterranea più calda. Dall’altra, riaprendo i Cie (Centri d’identificazione ed espulsione) e aumentandoli di numero, moltiplicando le espulsioni e dando il famoso giro di vite sulle Ong. La firma del codice di condotta il 31 luglio 2017, ma soprattutto le mancate adesioni e le polemiche che ne sono scaturite hanno segnato quell’esperienza. Tuttavia, hanno anche fatto a lungo di Minniti il ministro più popolare di quel governo.

Certo, questo non è bastato a impedire la débâcle del Pd lo scorso 4 marzo. Puntualmente certificata dallo smacco personale subito da Minniti, classificatosi terzo nel collegio uninominale di Pesaro-Urbino e poi recuperato alla Camera nel proporzionale. Resta che, con la sua attenzione per il tema della sicurezza e i risultati riportati dalla sua politica, l’ex ministro ha cercato di sanare un nervo scoperto della sinistra. Qualcuno, come è già capitato, dirà che questo equivale a inseguire la Lega di Matteo Salvini. E che alla fine gli elettori preferiscono l’originale. Ma nessuno può negare che ignorare e sminuire l’insicurezza diffusa nei ceti popolari siano stati tra i più gravi errori del Pd.

L’ombra di Renzi

Nicola Latorre (fedelissimo di Minniti) si sbilancia a dire che l’ex ministro al 55% si candiderà al Nazareno. Il rebus è: se lo facesse, sarebbe per Renzi o no? La mancanza di un candidato con chances, a fronte dell’opzione di tutti i big a favore di Nicola Zingaretti, è un problema per il Fiorentino. Minniti gli leverà le castagne dal fuoco? Certo, proprio la mancata inclusione di Latorre e Andrea Manciulli nelle liste del Pd per le ultime politiche segnò una certa tensione fra i due. E pensare che chi ha imparato a far politica con D’Alema si presti a fare il prestanome di Renzi sembra poco credibile.

Un altro conto è parlare di affinità programmatiche. Da questo punto di vista, è certo che Minniti sembra uno che guarda avanti con molto pragmatismo. In più, rispetto a Renzi, le sue origini comuniste e la sua permanenza nella sinistra non gli impongono esami del Dna. È per questo che potrebbe essere l’uomo giusto da contrapporre ai sospetti di eccessivo ecumenismo delle alleanze di Zingaretti.  

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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